sabato 17 marzo 2012

Per la Morte di Giuseppe Garibaldi



Giuseppe Garibaldi, 1861




PER LA MORTE

DI


GIUSEPPE GARIBALDI



DISCORSO

DI

GIOSUÈ CARDUCCI





BOLOGNA

NICOLA ZANICHELLI
MDCCCLXXXII




Questo discorso detto il IV di giugno nel teatro
Brunetti, fu raccolto a memoria e di su note
Manoscritte e d’alcuni giornali





I.

Questi vostri plausi, o signori, mi ripungono della promessa a parlare. Anche questa mattina ho ricevuto un terzo telegramma di sollecitazione a comporre versi su la morte del Generale. Io non so di aver finora dato prove di cuore così misero e duro, che altri mi possa tenere per pronto a mettere insieme delle sillabe quando un tanto dolore colpisce la patria e me, quando io ho qui sempre dinanzi agli occhi della mente e quasi a quelli del corpo il cadavere dell’uomo che ho più adorato fra i vivi. Ma in Italia (e gli adulatori dicono che è bene, come segno delle disposizioni di questo popolo all’arte) ma in Italia, come le donne nelle disgrazie del vicinato giocano tre numeri al lotto, così nei casi della nazione non mancano mai tribuni e verseggiatori che giochino tre frasi o tre rime al terno della popolarità o della celebrità. Io non sono di quelli (Applausi). No non applaudite, vi prego, quando anche il vostro plauso sonasse non altro che assentimento delle cose forse non vili che sono per dirvi e venerazione all’eroe che piangiamo. Non applaudite, vi prego. Non disturbate i sacri silenzi della morte. Pensate che il Generale giace immoto, cereo, disfatto, là tra i funebri lumi nella stanza di Caprera. Piangiamo e lamentiamo i fati della patria.

II.

La rivelazione di gloria che apparì alla nostra fanciullezza, la epopea della nostra gioventù, la visione ideale degli anni virili, sono disparite e chiuse per sempre. La parte migliore del viver nostro è finita. Quella bionda testa con la chioma di leone e il fulgore d’arcangelo, che passò, risvegliando le vittorie romane e gittando lo sgomento e lo stupore negli stranieri, lungo i laghi lombardi e sotto le mura aureliane, quella testa giace immobile e fredda sul capezzale di morte. Quella inclita destra che resse il timone della nave Piemonte pel mare siciliano alla conquista dei nuovi fati d’Italia, quella destra invitta che a Calatafimi abbatté da presso i nemici col valor securo d’un paladino, è in dissoluzione. Sono chiusi e spenti in eterno gli occhi del liberatore che dai monti di Gibilrosa fissarono Palermo, gli occhi del dittatore che a Capua fermarono la vittoria e costituiron l’Italia. La voce, quella fiera voce e soave cha a Varese e a Santa Maria Vetere gridò — Avanti, avanti sempre, figliuoli! Avanti, co’ calci de’ fucili! — e dalle rocce del Trentino espugnate rispose — Obbedisco —, quella voce muta nei secoli. Non batte più quel nobile cuore che non disperò in Aspromonte né s’infranse a Mentana. Giuseppe Garibaldi giace sotto il fato supremo. E il sole intanto risplende sull’Alpi italiane che non dono più nostre, sul mare che non è più il mare nostro.
La sua potenza si è dipartita da noi; e a noi non resta che la sua gloria e il sublime compiacimento di averlo avuto coetaneo. Egli fu una di quelle anime complesse e riccamente dotate della più alta umanità, quali sa darle la gente nostra nelle sue produzioni fatali. La correzione e la purità in lui de’ lineamenti eroici vi persuade di assomigliarlo a queì magnanimi greci che liberarono le patrie loro dalle tirannie straniere e domestiche; a Milziade, a Trasibulo, a Timoleone, a Epaminonda, a Pelopida; ma la scarsezza de’ fatti dalla parte loro o la non rispondenza degli effetti vietano intero il paragone. Degno ei senza dubbio di essere paragonato ai migliori romani, se in lui il senso umano non fosse più profondo e più gentile che non potesse per alcune parti e per molte ragioni essere in quelli, se egli non avesse di più quell’istinto di cavalleresche avventure che è proprio delle razze nuove e miste. E per questo suo impeto di eroico avventuriere e per la ferma devozione agl’ideali verrebbe voglia di paragonarlo ai cavalieri normanni e ai crociati, ai Guiscardi, ai Tancredi,  ai Gottifredi, se in lui non mancasse del tutto la cupidigia del conquistatore, se più alto non fosse il sentimento dell’onore e più illuminato quello del dovere. Giorgio Washinghton, come cittadino, è meglio eguale; come istitutore di repubblica è più felice e più grande; ma intorno alla fredda testa del generale puritano manca l’aureola dell’eroismo che costella l’alta fronte del cittadino d’Italia.
Tale qual fu è il più popolarmente glorioso degl’italiano moderni; forse perché riunì in sé le qualità molteplici della nostra gente, senza i difetti e i vizi che quelle rasentano o esagerano e mèntono. Nella storia della sua vita non vedete nen dove finisca la parte dell’Ariosto, dove quella di Plutarco cominci e dove il Machiavelli s’insinui: guerriero di avventura senza smargiasserie, eroe senza posa, politico senza ostentazione di furberie. Superiore ai partiti, pure accettando da essi tutto che di più vitale e più utile conferissero al rifacimento della nazione, e ciò che di giusto e di vero promettessero all’avanzamento del genere umano; egli fu su tutto e anzi tutto italiano e uomo di libertà. Repubblicano per natura e per educazione, sentì che una nazionalità vecchia e già storicamente spezzata da tempo non può ricostituirsi con e per un solo partito; e imperando alla vittoria e avendo in pugno i fati della patria, obbedì, volenteroso iniziatore, alla maggioranza. Ma quando la maggioranza torna partito, parve resistere o barcollò e s’indugiò dinanzi al fine supremo, egli, ribelle in vista, richiamò quella al dovere. Non dite che opportuna sarebbe su lui scesa la morte sul finire del 1860: voi bestemmiereste. Non giudicate dalle norme dei tempi ordinari i movimenti onde il popolo in rivoluzione è rapito verso il fine ultimo, il ricostituimento: voi sareste pedanti. Aspromonte salva l’onore della nazione, Mentana dà Roma. E  l’atteggiamento dell’eroe, paziente nella ferita e nella prigionia infertagli da quelli stessi pei quali combatté vittorioso nella sconfitta, esalta la dignità umana.
Che se a tutto questo aggiungete come l’ardenza del suo gran cuore oltrepassando i monti ed i mari andasse a ricercare e riscaldare gli oppressi per tutte le terre, onde i Poloni e gli Ungheresi e i Greci e i Serbi lo aspettavano e lo invocavano capitano, e Francia lo ebbe, vendicatore di Roma e di Mentana, a Digione; e se aggiungete che ogni causa giusta, ogni idea di civiltà e di liberazione, ogni pratico miglioramento per la vita degli uomini, in guerra a in pace, nella politica e nella scienza, nella società putta intera e nella solitudine dei tuguri, lo ebbe assertore ed operatore eloquente e potente; voi sentite come bene gli si avvenga il saluto che ieri in Parlamento accompagnava la sua memoria, cavaliere del genere umano.

III.

Dieci anni a pena sono corsi, da che, mancata all’Italia la magnanima vita di Giuseppe Mazzini, il Generale dal ritiro di Caprera ordinava con gloriosa brevità: Su la tomba del grande italiano sventoli la bandiera dei Mille. Quale bandiera sventolerà oggi l’Italia sul cadavere e sull’urna dell’eroe? Le bandiere forse delle dimostrazioni contro gli assassinii di Marsiglia, già da un pezzo riadagiate nelle botteghe onde furono tolte, mentre i nostri nazionali sono tuttavia ricercati a morte per le strade delle città straniere? O non più tosto quelle che salutarono la partenza de’Reali d’Italia per Vienna?. O vorremo, anche meglio, a soddisfazione e guarentigia dell’Europa, su l’urna del Nizzardo giurare, che abbiamo, con mente deliberata e cuor fermo, rinunziato in tutto e per sempre a Trento e Trieste? O per placare l’ombra del vincitore di Bezzecca e di Digione e del vinto di Mentana, vorremmo noi sussurrare baldamente, che l’isolamento della Francia in Egitto ci ha ben pagato dello schiaffo di Tunisi, e che, se non i discendenti di Camillo e di Cesare o i nepoti del Machiavelli, noi siamo gli amici e i portinai di seconda bussola di Bismark?
Coraggio, o partiti, coraggio; e spiegate le vostre glorie intorno al letto di morte dell’eroe. Avanti la Destra, anarchica e socialista per ragguantare il potere! Avanti la Sinistra, conservatrice e sbirra per ritenerlo!... F. di voi progressisti, con le soperchierie dei saliti ad altezze insperate con le paure di aver fatto troppo o di troppo fare per rimanerci! E voi repubblicani, col bizantinismo sonante, con le frasi che s’infingono di minacciare e spaventare e mal richiamano a un Bengodi in aria il popolo che non v’intende, voi spicciolati in tante sètte quante son le formole se non le idee, quante le vanità se non le ambizioni, sì che gli avversari posson dire di voi — E’ fanno di gran rumore, ma sono quattro noci in un sacco! — Né manchino i socialisti, almeno quelli che custodiscono e rinnovano a freddo nei loro pensieri e nei sogni certe idee e certe scene nelle quali la sensuale leggerezza celtica si accoppia libidinosamente alla torva crudeltà druidica; e le sarebbero in Italia, dove tanta Plebe è, per debolezza e superstizione, inconscia della vita, accademie, più che pericolose, innocenti, se non distraessero giovini nobili d’ingegno e di cuore dal servire più utilmente ai doveri verso la patrie e ai bisogni del popolo, se non seducessero i male avvertiti e non intelligenti per vie delle quali nessuno sa la riuscita.

IV.

Ma tutti questi, voi dite, sono errori o colpe che passeranno e si tergeranno, e la stella d’Italia risalirà gloriosa l’orizzonte, e la memoria e la gloria di Giuseppe Garibaldi sarà sempre con noi, condottiera nelle prove supreme; perché gli eroi non muoiono mai per le nazioni dalle quali ei sono usciti o che hanno col loro creatore spirito riplasmate.
Oh io vi dico in verità che egli è ben morto; e troppo stanno bene i morti, credo io, passato una volta il guado del gran forse, per ritornare di qua. Sono i popoli che imbalsamano della loro memoria i magni defunti, e con la fantasia irrequieta e sognante gli risvegliano dalle tombe, e gli rivestono dei loro affetti; e dicono e pregano e comandano alle ombre gloriose — Avanti, avanti, o padri, alla riscossa!
Così i Celti soggettati allo straniero in Britannia aspettarono, e i pescatori delle coste gaeliche aspettano ancora, re Artù. Così gli Slavi credono che di giorno in giorno Craglievich Marco uscirà dalla grotta sul Grande pezzato cavallo a cacciare e battere Turchie Tedeschi. E i poeti tedeschi cantavano del Barbarossa assonnato nel suo castello sotterra, finché i corvi gli svolazzassero attorno e finché il brando cascandogli e battendo in terra non l’avvertisse tornata l’ora di ristabilire il sacro impero. E qualche Honwed aspetta forse anche oggi Alessandro Peteofi, perduto fra il tumulto della battaglia in una palude. Ma per così fatte aspettazioni longanimi e sorridenti fra lo strazio occorre ai popoli un gran fondamento d’idealità. L’ha ella l’Italia? Io lo spero.

V.

Forse, tra il secolo vigesimo quinto e il vigesimo sesto, quando altre istituzioni religiose e civili governeranno la penisola, e il popolo parlerà un’altra lingua a quella di Dante, e il vocabolo Italia suonerà come il nome sacro dell’antica tradizione della patria, forse allora, tra un popolo forte pacifico industre, le madri alle figlie nate libere e cresciute virtuose, e i poeti (perché allora vi saranno veramente i poeti) ai giovani uscenti dai lavori o dalle palestre del fòro, diranno e canteranno la leggenda garibaldina così.
Egli nacque da un antico dio della patria mescolatosi in amore con una fata del settentrione, là dove l’alpe cala sorridente verso il mare, e nel mare turchino si specchia il cielo più turchino, e più verde ed amena splende ed aulisce la terra. Ma tristi tempi eran quelli; ed in quel paradiso signoreggiava tutto l’inferno, cioè i tiranni stranieri e domestici e i preti.
Allora, mentre il fanciullo divino passeggiava biondo e sereno coi grandi occhi aperti fra il cielo e il mare, l’Italia, per salvarlo ai tiranni e serbarlo alla liberazione, lo rapì a volo in America, nell’America che un altro ligure grande scoprì secoli innanzi per rifugio a lui e a tutti gli oppressi. Ivi il fiero giovinetto crebbe a cavalcare le onde selvagge come puledre di tre anni, a combattere con le tigri e con gli orsi; e si cibò di midolle di leoni; e passò fra quei selvaggi bello e forte come Teseo, e li vinse e li persuase; sollevò repubbliche, abbatté tirannie.
Quando i tempi furono pieni e Teseo era cresciuto ad Ercole, Italia lo richiamò. Due eserciti, due popoli, quasi due storie si contendevano allora il suolo della patria: a settentrione, i Germani; nel mezzo, attorno alla grande città già presa da Brenno schiamazzavano i Galli. Egli venne e volò, di vittoria in vittoria, da un esercito all’altro e si fermò a Roma.
La leggenda epica, voi sapete, non guarda a intermezzi di tempi; e nella sintesi della vittoria nazionale non tiene conto delle guerre e delle battaglie diverse. Così l’assedio di Roma durerà nell’epopea dell’avvenire, come quello di Troia e di Veio, dieci anni. E la epopea racconterà delle mura di Roma gremite di giorno di vecchi e di donne e fanciulli a rimirare le battaglie dei padri dei mariti dei figli; racconterà delle vie di Roma illuminate la notte e veglianti, mentre gli obici e i flutti dei due eserciti si incontrano e si incrociano dinanzi le porte. Oh come insorgerà la nota omerica ed ariostea quando il poeta canterà il Daverio il Brixio il Pietra-Mellara il Sirtori e il Sacchi, e te, Aiace Medici, ritto con mezza spada su le ruine del Vascello fumanti; e la pugna di due campi intorno al cadavere del Patroclo Masina, tornato per la quarte volta all’assalto spronando il cavallo su per le scalee de’ Quattro Venti! E come dolce sonerà la nota Virgiliana e del Tasso, cantando Curiali e Nisi novelli, e Turni e Camille, e Gildippe e Odoardo; e voi Morosini e voi Mameli e voi Manara, e cento e cento giovinetti morenti a quindici e diciotto anni col nome d’Italia sulle labbra, con la fede d’Italia nel cuore! Ma io non so immaginare quale e quanto sarà rappresentato egli, o caricante sul cavallo bianco e al canto degli inni della patria il nemico, o tornante, con la spada rotta, arso, affumicato, sanguinante, in senato!
L’assedio dunque durò dieci anni, ma Roma non fu mai presa. L’eroe fece una diversione oltre gli Apennini, passando come fulmine fra tre eserciti; e tornò con re Vittorio, che persuase i Galli. I quali, memori di certa affinità di sangue e di antiche alleanze, si accordarono col re e con gl?Italiani a ricacciare al di là delle Alpi i Germani accampati nel settentrione.
Ma i Galli, in premio dell’aiuto contro i Germani, vollero per sé la bella regione dove era nato l’eroe. Egli non fece lamento. Con mille de’suoi si imbarcò su due navi fatate, e conquistò in venti giorni l’isola del fuoco e vinse in due mesi il reame de’Polifemi mangiatori di popoli. E disse a re Vittorio: Eccoti per due provincie due regni: bada non altri ceda o venda anche questi. Ma nei servi delle antiche tirannie crebbe il livore, e s’accontarono coi Galli nei quali l’emulazione fermentava a odio. E ferirono l’eroe nella sola parte ove fosse vulnerabile, nel tallone; e lo rilegarono in una isoletta selvaggia, che sotto il suo piede fiorì di messi e di piante. Ivi l’eroe stette solitario un lungo corso di anni; e come Filottete in Lemmo immergeva il piede ferito nel bagno del Mediterraneo, e la madre dea veniva pe’ cieli a consolarlo, e dagli amplessi di lei riaveva la salute e il roseo lume di giovinezza.
Intanto dal mescolamento dei Galli coi servi aborigeni procedeva una gente nuova; e la generazione garibaldina, scarsa dopo tante battaglie, erasi ritirata o era stata respinta verso gli Apennini e le Alpi. La gente nuova fu di pigmei e di folletti, di gnomi e di coboldi. Gnomi ogni lor industria mettevano a raspar la terra con le mani e i denti per cavarne l’oro: coboldi martellavano di continuo reti di maglie di ferro per impigliarvi gli gnomi e portarne via l’oro: pigmei e folletti avevano la leggerezza del pensiero quasi uguale alla perversità degl’intendimento, e seguivano con mille giuochi maligni a perseguitare e derubare gli gnomi e i coboldi. In tanta degenerazione anche le Alpi si erano abbassate, e i mari rittratti; e l’aquila romana intisichiva dentro la nuova gabbia che le era fatta. I coboldi e gli gnomi trionfavano. E gli uni ricevevano senza scrollarsi gli scapaccioni aggiustati alle lor teste da certe mani passanti su le Alpi abbassate o pe’ mari rittratti, e si vantavano forti: e gli altri oltraggiavano i loro padri e si sputacchiavano a gara le facce, e si dicevano liberi. E questi scavavano piccole fosse per deporvi le immondezze delle anime loro, e si chiamavano conservatori; e quelli saltabeccavano, come scimmie ubriache d’acquavite, su le loro frasi, e si gridavano rivoluzionari.
Così narrerà la leggenda epica, la quale, come produzione d’un popolo misto di varie civiltà, avrà anche la parte sua comica: se rispondente a qualche vero, non posso io giudicare. E seguirà, come una fiera procella spazzasse via la piccola gente, e gli stranieri occupassero anche una volta la penisola. Allora la generazione garibaldina discese alle rive del mare; e tese le braccia su le grandi acque, e gridava — Vieni ritorna, o duce, o liberatore, o dittatore. — Alle lunghe grida tese l’orecchio l’eroe, e s’avviò al racquisto della terra nativa. E poi che troppo scarsa era ormai la sua generazione, ei fermo sul Campidoglio, e levando alto la spada e battendo del piede la terra, comandò a tutti i morti delle sue battaglie risorgessero. Fu allora che suono il canto delle moltitudini:

Si scopron le tombe, si levano i morti;
I martiri nostri son tutti risorti.
E allora le rossi falange corsero vittoriose la penisola; e l’Italia fu libera, libera tutta, per tutte le Alpi, per tutte le isole, per tutto il suo mare. E l’aquila romana tornò a distendere la larghezza delle ali fra la marina e il monte, e mise rauchi gridi di gioia innanzi alle navi che veleggiavano franche il Mediterraneo per la terza volta italiano.
Liberato e restituito ne’ suoi diritti il popolo suo, conciliati i popoli d’intorno, fermata la pace la libertà la felicità, un giorno l’eroe scomparve: dicono fosse assunto ai concilii degli Dei della patria. Ma ogni giorno, quando il sole si leva su le Alpi fra le nebbie del mattino fumanti e cade fra i vapori del crepuscolo, disegna fra gli abeti e i larici una grande ombra, cha ha rossa la veste e bionda la lunga capelliera errante sui venti e sereno lo sguardo siccome il cielo. Il pastore straniero guarda ammirato, e dice ai figlioli — È l’eroe d’Italia che veglia su l’alpi della sua patria.

VI.

Così canterà l’epopea futura. Ma dimani o poco di poi le mollecole che furono il corpo dell’eroe andranno disperse su l’aure, tendendo di ricongiungersi al Sole, di cui egli fu su questa terra italiana la più benefica splendida emanazione. Oh che i venti portino attorno gli atomi dell’eroe, e rifacciano i vivi!
Nei tempi omerici della Grecia, intorno a’ roghi degli eroi, si giravano i compagni d’arme e di patria, gettando alle fiamme quelli cose che ognuno aveva più care; alcuni sacrificavano anche i cavalli, altri gli schiavi e fino sé stessi. Io non chieggo tanto agli italiani: io voglio che i partiti vivano, perché sono la ragione della libertà. Ma vorrei che i partiti, dal monarchico il quale vantasi alleato Giuseppe Garibaldi al socialista che da lui si crede iniziato o abilitato, intorno alla pira che fumerà sul mare gittassero non le cose loro più care ma tutto quello che hanno più tristo.(1)
Così noi potremmo sperare che nei giorni dei pericoli e delle prove — e sono per avventura prossimi e grandi — l’ombra del Generale torni cavalcando alla fronte dei nostri eserciti e ci guidi ancora alla vittoria e alla gloria.



([1] ) A questo punto Enrico Panzacchi ruppe la consegna e sorse in piedi acclamando a gran voce; tutto il popolo si levò con fremiti e grida di entusiasmo patriottico.



sabato 3 marzo 2012

Waterloo
Il blog dei fuori rotta
 
Etica e politica.
Un nuovo blog per Pistoia.
Click sotto

La notte della politica. Un nuovo blog.

di Antonio Nardi 
 
Presento, e consiglio vivamente, a chi segue Waterloo il blog di Umberto Semplici “La notte della politica”. L’autore ha voluto aprirlo con una lettera a me indirizzata. E’ una lettera sofferta, scritta da uno che, a differenza di me, crede ancora in questa nobile e malandata attività dell’uomo. Egli affronta un tema eterno, quello del rapporto fra etica e politica. Esistono diverse scuole di pensiero. Per Kant le due si identificano nel “politico morale”. Per Hegel prevale l’eticità. Per Machiavelli restano insanabilmente separate. Si parla di monismo e di dualismo. Di etica dei valori e di etica della responsabilità. La seconda guarda alle conseguenze, la prima no: applica i valori e basta. Insomma, c’è di che riflettere. E Umberto saprà farlo. Il suo blog si annuncia interessante ed avrà molti lettori. In base alla mia esperienza, gli consiglio di tenere conto dei diversi interessi. Il blog è universalmente visibile. Se però i singoli articoli vengono preceduti da un “lancio” via e-mail, è bene, secondo me, tenere conto degli interessi di chi leggerà. Quali siano lo si capisce dalle lettere che arrivano o per conoscenza diretta delle persone. Vi sono lettori per la politica,  altri per le note di costume, altri ancora per eventuali excursus in temi scientifici, altri infine che possono apprezzare i contenuti simbolici. Io consiglierei ad Umberto di definire appositi indirizzari tenendo conto delle inclinazioni e delle diverse sensibilità.
 
25 febbraio, 2012

sabato 25 febbraio 2012

da Antonio Nardi


Caro Umberto,
ti ringrazio della bella lettera di apertura del tuo blog, al quale auguro ogni successo. Come ti ho detto stamattina, io non riesco, come te, a "sentire" la politica. L'unica cosa alla quale tengo è che sia preservata la liberal democrazia, proprio perché ti lascia vivere anche se non partecipi alla competizione. Capisco il tuo rammarico per le aggressioni, i trabocchetti, le slealtà. Più volte ho dovuto subire comportamenti sommamente sleali, che per un certo periodo hanno lasciato il segno. Poi il tempo, le difese che il carattere appronta e lo sconquasso cardiaco hanno riportato, difficile a credere ma è così, un quid di serenità, che cerco di preservare. Mi piaceva immergermi nel cosiddetto "dibattito politico", nazionale e locale. Ora me ne tengo alla larga. Politicamente sono un "orfano di Craxi", cioè un sopravvissuto che ha scelto di non partecipare più. Va di moda citare una canzone di Giorgio Gaber in cui è detto, fra l'altro, che libertà è partecipazione. Io sono dell'idea che libertà significa prima di tutto poter scegliere, anche, come nel mio caso, di stare alla finestra, di non partecipare.

Tuo
Antonio